None. Stazione orbitante "Mother".

del 18/07/2020


Stazione orbitante “Mother”, 390° Giorno. 

Obiettivo missione: valutazione della possibilità di colonizzazione umana di nuovi pianeti.

La navicella Soyuz attraccò di nuovo al LOS presso la Porta-β, dopo essersi spostata dal punto di attracco precedente al quale si era ancorata all'inizio della missione Colony. Uno dei computer di bordo dedicati al controllo della Porta aveva rilevato dei malfunzionamenti. Consigliato cambiare attracco, per non compromettere le possibilità di ritorno sulla Terra. Il capitano Spencer Hughes aveva autorizzato l'operazione come una delle tante operazioni di routine che possono capitare su una stazione orbitante. Anche sulla ISS capitava di dover riposizionare le navicelle per facilitare operazioni di carico e scarico con i cargo senza equipaggio, che arrivavano e partivano di continuo. 

Sergei Skilarov e Barbel Bauer completarono le ultime procedure di spegnimento e si sganciarono dai sedili.

«E anche questa è fatta, dolcezza» disse Sergei ostentando tranquillità e indifferenza mentre il portellone si riapriva.

Anche Barbel era tranquilla, ora che la Soyuz era assicurata alla stazione orbitante lunare, ma non si poteva dire che avesse vissuto la manovra con spensieratezza. Quando, durante l'addestramento, le avevano spiegato della possibilità di dover intervenire sull'ancoraggio delle navicelle semplicemente per spostarle ad una nuova Porta, si era sentita le ginocchia mancare. Manovre analoghe, come il primo docking o le procedure di re-entry, la preoccupavano meno, ma quelle procedure semplicemente per questioni di logistica, quasi che fosse un parcheggio, l'avevano sempre spaventata. Non avevano senso. Era la banalità di quelle operazioni a spaventarla: la possibilità concreta che qualcosa andasse storto, la possibilità di rischiare la vita, di vagare per sempre per lo spazio infinito, soltanto per un parcheggio. Sarebbe stata una morte stupida, ma almeno non sarebbe occorsa quella sera.

Il malfunzionamento della Porta, comunque, giustificava ai suoi occhi il rischio che si erano presi: il Lunar Orbiter Station non poteva diventare una trappola mortale. Nei giorni successivi avrebbero ricontrollato il portellone e avrebbero provato a riparare quanto era possibile riparare a 380.000 chilometri dalla Terra, e a più di un anno dagli ultimi rifornimenti di materiale. L'obiettivo della missione Colony, simulare un viaggio nello spazio profondo, non poteva avvalersi di “aiuti da casa”. Neanche se, in effetti, in quel momento stavano semplicemente provando la tenda da campeggio in giardino.

Sergei sgusciò per primo all'interno del LOS, senza alcuna galanteria nei confronti di Barbel e senza lasciarle la precedenza. Sarebbe stato evidente a chiunque come avesse perdutamente perso la testa per lei, eppure in un sacco di occasioni si lasciava sfuggire la possibilità di essere gentile, per non dire galantuomo.

La giovane astronauta dell'Agenzia Spaziale Europea non ci diede peso, anche se registrò quell'ennesimo episodio di maleducazione, e fluttuò rapida diretta verso il modulo abitativo che divideva con la sua collega, la giapponese Kyo Yashigami. Quella sospettosa! Se ne stava rintanata nella sua cuccetta da almeno 12 ore, ormai. Così imparava a sospettare che lei provasse una qualche attrazione per il capo-spedizione Spencer Hughes, l'americano. Era alto, brizzolato, aveva uno sguardo da attore e una voce suadente. Niente più di quello. Ah, era soprattutto anche il capo-spedizione.

Un anno di permanenza nella stazione cominciava a farsi sentire: l'armadietto di Barbel era disordinato come non mai. Non era mai stata una ragazza trasandata quando era sulla Terra, e nessuno aveva mai rilevato alcun motivo per cui, su una nave spaziale, lei dovesse essere un elemento di disordine e trascuratezza. Ma un anno di isolamento ti cambia. Il velcro con cui sono appesi gli oggetti comincia a scollarsi e a non tenere più, e anche le abitudini più consolidate cominciano a staccarsi dalla parete. Chiuse l'armadietto quasi sbattendolo, e Kyo, nella sua cuccetta, si rigirò lamentandosi.

 

Nel modulo centrale del LOS, Barbel Bauer controllò i dati di un paio di laptop aperti e fissati alle pareti con dei bracci metallici. Orbita regolare, velocità regolare. Tutto regolare. La missione Colony procedeva senza intoppi e dal Centro Controllo Missione ne erano felici. Faceva quasi sorridere pensare che laggiù, con tutti i problemi che potevano avere, erano tutti preoccupati per il malessere di Kyo.

«Se avessi saputo che la cosa vi preoccupava così tanto, non l'avrei messa k.o. Per 12 ore» bisbigliò tra sé e sé Barbel, coprendo con una mano il microfono sul girocollo della maglietta.

Nel modulo entrò prima Yao Lin, il taikonauta, e poi ancora Sergei, il cosmonauta. Barbel si definiva astronauta, invece, e questo non solo perché così si definiva il capitano Hughes. Era la più giovane dell'equipaggio, con i suoi ventisette anni, i suoi fianchi snelli e i suoi riccioli biondi, ma era Kyo la più inesperta di spazio. Il che, ancora una volta, non faceva che alimentare le fissazioni della ragazza giapponese sul fatto che lei, Barbel, fosse la preferita del capo-missione. Pensò che non sarebbe stato affatto male se avesse approfittato del momento di calma per andare nel modulo dedicato agli esercizi fisici, a fare un po' di tapis-roulant. Insieme a Spencer, magari. Quando svolazzò per il modulo principale passando di fianco a Sergei, però, il cosmonauta la spinse contro uno dei tanti armadi a muro della Stazione Orbitante.

«Sergei Skilarov, per favore!» lo allontanò Barbel.

Richiamato dalle voci, Yao si affacciò in fondo al corridoio centrale. A Sergei parve subito che lui e Barbel si scambiassero uno sguardo d'intesa, e dentro di lui il suo desiderio sessuale si tramutò presto in rabbia e gelosia. Non era possibile che la ragazza lo rifiutasse in modo così aperto, mentre fosse pronta a buttarsi tra le braccia del cinese. Non era possibile che la biondina lo scaricasse e lo umiliasse semplicemente con uno sguardo.

Si chinò su Barbel e le baciò il collo. La ragazza, questa volta, lo respinse con più forza. Yao si gettò a dividerli, guizzando più veloce di un'anguilla e più lesto di un poliziotto delle truppe speciali, ma il cosmonauta lo colpì al collo con una biro strappata dalla parete lì vicino e Yao “il salvatore cinese” barcollò, e rimbalzò indietro. 

Sergei si ributtò allora, indisturbato, su Barbel, che stringeva tra le fauci come una volpe potrebbe trattare una lepre. E pensò proprio a delle volpi quando prese Barbel per i capelli per costringerla a baciarlo.

 

Spencer sparò a Sergei con la leggerissima ed ergonomica pistola di capo spedizione e responsabile dell'ordine a bordo della Stazione. Il proiettile si conficcò alla base della colonna vertebrale di Sergei spezzandola e intaccando il midollo osseo. Barbel, inorridita e spaventata, si ritrovò tra le braccia il corpo esanime del collega, ma lo sguardo era tutto per Yao, che giaceva in quella che stava diventando una nuvola di sangue, e poi per Spencer Hughes, che si stagliava in fondo al modulo, più saldo di uno sceriffo e più freddo di un Delta Force.

Una spia di allarme interruppe il silenzio e cominciò a suonare. Quando Spencer arrivò alla cuccetta di Kyo Yashigami, ormai era troppo tardi e Kyo non presentava più segni vitali. Una crisi respiratoria improvvisa le aveva provocato delle convulsioni e poi le aveva tolto il respiro. Invano aveva azionato il campanello d'allarme.

Con già la pistola in mano, Spencer Hughes, 48 anni, un amore giapponese già perso in passato, si infilò la canna in bocca e si sparò.

Rimasta sola, Barbel Bauer non poté che decretare il fallimento della missione che era davanti ai suoi occhi nella sua interezza. Percorse più di una volta ogni singolo centimetro della stazione orbitante, il LOS, con la delirante speranza di trovare ancora tracce di vita umana. Quando tornò in sé, e recuperò un po' di lucidità, annotò il fallimento della missione Colony sul diario di bordo, e scrisse che a determinarlo erano state evidenti inadeguatezze nel materiale umano a disposizione. La specie umana aveva a disposizione la tecnologia e le conoscenze per colonizzare Marte, ma avrebbe dovuto compiere ulteriori miglioramenti, attendere nuove evoluzioni, prima di poter pensare di lasciare il Pianeta.