Germania Ovest. 1983.

del 23/08/2017


Germania Ovest. 1983.

Autobahn dopo l’atterraggio all’aeroporto internazionale di Freiburg / Basel / Mulhouse. Prendemmo al volo un’auto alla Europcar.

«Dove dovete andare?».

«A sistemare affari di famiglia a Koblenz».

«Un po’ lontano, non trovate?»

No. Non da quando Francia, Germania e tutti gli altri Paesi europei stavano mettendo i panni sporchi insieme. Era anche una visita turistica, quindi, baffone, dammi le chiavi. Pagai con una certa spocchia mostrando banconote americane e ostentando un accento da Little Italy che non era il mio. Phoebe, distratta, si guardava intorno: dev’essere questa la tanto famosa “Europa”.

Quindi, direzione: nord. Saltammo subito in Germania dopo un breve controllo dei passaporti. Autobahn a doppia corsia. Velocità illimitate. No, non mi andava proprio di correre. Prima saremmo arrivati, e prima avrei dovuto decidere.

Mi trovavo in Germania Ovest per la 1000km del Mondiale Endurance. Ero un giornalista ed ero venuto a vedere Bellof correre con la sua Porsche 956 ufficiale. L’aria della Nordschleife, a maggio, riusciva a togliermi dalla testa tutti gli altri pensieri.

La mia ragazza, Phoebe, era invece venuta in Germania per girare un film. Aveva appena esordito al cinema con due pellicole, “Paradise” (1982) e “Fast Times at Ridgemont High” (1982), e ora voleva qualcosa di serio. Il mio amico Alberto Weiss le aveva scritto: ho pronto per te il film più serio di tutti. Era un vero regista e voleva puntare tutto sul cinema. Voleva raccontare la Germania post-bellica con l'atmosfera di “Alice nelle città” (1973), o “Nel corso del tempo” (1976), di Wim Wenders. Era stato uno dei suoi direttori della fotografia, in Europa, e dopo si era messo in proprio. Aveva bazzicato il set di “Heimat”, in uscita di lì a un anno, e dopo aveva scritto a Phoebe: la mia ragazza e la mia musa. Fin qui niente di strano. Un dettaglio, però, mi aveva insospettito: voleva girare alla Casa.

Mi ero fatto mandare il copione. Avevamo letto la sceneggiatura in anteprima, in gennaio, nella nostra casa di Wilmington, South Carolina. Niente da dire: al passo coi tempi. Erano ormai gli anni ‘80 e le trame si erano fatte pruriginose. Avevo fantasticato che Phoebe girasse un film come “Rolls-Royce Baby” (1975). Ora Alberto mi poteva forse aiutare. 

C'erano le sue attrici storiche, come Isabelle Adjani, e anche la sua nuova musa: Maruschka Detmers, che gli aveva presentato Godard. Le premesse erano buone. Ottime. Però, ugualmente, non era facile da accettare.

La storia: un professore di fotografia della locale Università di arti figurative, che vagamente mi ricordava il Jonathan Hemlock interpretato da Eastwood solo qualche anno prima in “Assassinio sull’Eiger” (1975), tratto dall’omonimo romanzo di Trevanian, aveva una passione, o meglio, una perversione: fotografarsi e fotografare i propri studenti e le proprie studentesse ricreando ambientazioni da anni ‘30.

Dopo Freiburg, guidai senza leggere i cartelli.

Offenburg, Rastatt, Karlsruhe, Pirmasens, Saarbrücken. Un viaggio nella Germania mia e di Alberto, lungo la discesa dopo lo scollinamento della Guerra. Avevamo vent’anni, e ne avevamo solo sentito parlare.

Non potevo lasciare che Alberto facesse un film sulla Casa.

Era stata la nostra palestra di vita, dove avevamo deciso di dedicarci rispettivamente a giornalismo e cinema, durante l’Università fatta insieme alla Goethe-Universität di Frankfurt am Main. Sì, il protagonista del suo film era il nostro professore dell’epoca, Berni Brandt e la sua ossessione per gli anni ‘30, che era diventata anche la mia.

Per questo ero tornato alla Casa, non spesso, ma abbastanza per aver contribuito un po’ al suo disordine. Già mi immaginavo la scena: primo piano, studio privato del professor Brandt, e due scatole di cartone comprate da Kmart che avrebbero attirato l’attenzione. Avevo fatto delle indagini e quelle erano mie ricerche che Alberto Weiss non avrebbe dovuto vedere. Ero diventato un giornalista per merito di Berni Brandt, è vero, ma subito mi ero messo a dargli la caccia. Se fossi riuscito ad arrivare in tempo alla Casa, avrei fatto sparire le scatole. Così tra me e Alberto non ci sarebbero stati vuoti da colmare. Volevo preservarlo da quella storiaccia europea che avrebbe incasinato i ricordi e mandato a monte il suo film. Avevo in macchina una tanica di benzina, l’avevo preparata apposta per bruciare quelle prove. Avrei lasciato un’immagine pulita e ordinata di Berni Brandt che prescindesse da quella stagione della sua storia. 

Potevo incendiare tutto, dare fuoco alla Casa stessa e sbarazzarmi di quel fardello per sempre. Potevo trovarmi un nome che suonasse americano e convincermi che non era vero niente.

Phoebe guardava fuori dal finestrino della nostra Porsche, estasiata. Non era mai stata in Europa e quella era la prima volta che i suoi occhi si posavano sul Reno, sulle foreste tedesche, su lembi di placida vita agricola venuta dopo il turbinio della tempesta: stavamo percorrendo il fronte più caldo del Novecento europeo, e si sentiva la puzza di carneficina ancora nell’aria.

Vecchio padre, che scorri tra i filari di frassini e poi ti butti in brutte gole…

Guardando Phoebe, vent’anni, e cercando di vedere l’Europa con i suoi occhi, mi venne una improvvisa tristezza. Sì, avrei tolto di mezzo le scatole, e il passato, per consentirle di fare questo film.

«Ti è mai venuta voglia di tornare a vivere in Europa?» mi chiese, ad un certo punto.

Viaggiavo spesso, per le gare, ma avevo sempre fatto base negli States dal 1977 almeno. La rassicurai che non ci avevo mai pensato. Il timbro della mia voce le parve insincero e mi sentii ipocrita. Ci fermammo a prendere dei rullini fotografici e degli hot dog in un chiosco lungo la strada.

«Italiano?» mi chiese l’accento napoletano dietro al bancone.

«Ja, natürlich bin ich».

Perché non stavamo andando subito al Nürburgring? Alberto avrebbe trovato altre location in cui girare i suoi film. Non era necessario che andassi a portargli le chiavi. Non era necessario che scoprisse le mie ricerche sul professore per poter fare quel film. 

Ma la Casa, ormai, mi attirava come una calamita. 

Strinsi le mani sul volante fino a farmi diventare bianche le nocche. L’aria cominciò ad avere l’odore dei miei vent’anni. Il sapore dell’erba dei prati e della pioggia sulle foglie del querceto.

Un tuono accompagnò le prime gocce di pioggia sul parabrezza, proprio in prossimità del vialetto in ghiaia.

Parcheggiai nel cortile e mi fermai in piedi ad osservare la Casa da lontano. Era bianca e isolata tra i boschi, in un silenzio rispettoso. Aspettava. Sollevai lo sguardo al cielo e vidi che era quasi sgombro di nubi, eppure stava piovendo. Tuonò ancora. Si sarebbe formato un bellissimo arcobaleno.

«Allora, vieni?» mi chiamò Phoebe, sporgendosi dalla balconata del portico.

Trassi un ultimo respiro. Sarebbe successo quello che doveva succedere. 

Lasciai la tanica di benzina in auto. Sentii che tutto era al suo posto e non lo potevo cambiare.